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Conseguenze Psicologiche del Bullismo

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Il termine bullismo indica un comportamento che mira consapevolmente a fare del male, che è persistente nel tempo, dura per settimane - mesi - perfino anni, e da cui è difficile difendersi.

Occorre fare attenzione, essendo il bullismo un fenomeno che si manifesta per lo più nel contesto-scuola, a non confondere il bullismo con i litigi tra coetanei: la differenza è che un litigio non è né intenzionale, né ripetuto. Secondo gli studi che per primi hanno affrontato questo problema, perché una relazione tra soggetti possa prendere questo nome devono essere soddisfatte tre condizioni:

1. si verificano comportamenti intenzionali di prevaricazione diretta o indiretta
2. queste azioni sono reiterate nel tempo
3. sono coinvolti sempre gli stessi soggetti, di cui uno/alcuni sempre in posizione dominante (bulli) ed uno/alcuni più deboli e incapaci di difendersi (vittime).

Secondo la definizione di Dan Olweus: “Uno studente e' oggetto di azioni di bullismo, ovvero e' prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di piu' compagni” (Olweus, 1996).

La letteratura in materia ci dice che il bullismo può esprimersi attraverso forme diverse:
- psicologica (esclusione, maldicenza), prevalentemente femminile;
- verbale (prese in giro, minacce, insulti), sia maschile che femminile;
- fisica (aggressioni, tormenti), prevalentemente maschile.
In questa terza categoria vengono generalmente compresi anche il danneggiamento degli oggetti personali, i furti e le estorsioni.
Restano esclusi, ma di volta in volta riconducibili ad una delle categorie appena enunciate, gli scherzi pesanti che spesso sono tra le forme di umiliazione più pesanti per ragazzi di questa età. Talvolta il bullismo si manifesta come fenomeno di gruppo. Nella vita di gruppo esistono sempre delle dinamiche di appartenenza e di esclusione, che tra bambini e ragazzi emergono in modo particolarmente forte. Chi è fuori, è fuori per sempre e chi è dentro non si limita ad emarginare la vittima, ma si accanisce contro di essa. Il bullo non agisce da solo: alcuni compagni svolgono un ruolo di rinforzo, altri formano un pubblico che incita e sostiene, altri ancora si disinteressano a quello che accade, non manca poi chi tenta di opporsi alle prepotenze per proteggere la vittima.

In Italia sul problema del bullismo pare esserci un certo ritardo culturale. Sul dizionario Zingarelli (1993), al termine "bullo" corrisponde la definizione di: «prepotente, bellimbusto, che si mette in mostra con spavalderia», mentre sul Devoto e Oli (1993) il bullo è un «teppista, sfrontato», ma anche, in senso non cattivo, “un bellimbusto che si rende ridicolo per la vistosità e l’eccentricità dell’abbigliamento». La definizione di bullo in Italia ha un'accezione che stempera la gravità della violenza, anzi spesso il termine "bullo, bulletto" ha un'accezione positiva. Bisogna attendere il 1996 perché il termine "bullismo" compaia su alcuni dizionari nella sezione "neologismi".
Il significato che noi oggi diamo al termine "bullismo" deriva da quello anglosassone. Sull’Oxford Dictionary del 1990, bully denota una «persona che usa la propria forza o potere per intimorire o danneggiare una persona più debole». Dalla comune radice derivano sia il verbo to bully che il sostantivo bullying.
Il significato inglese del termine non denota quindi un semplice atteggiamento, come accadeva nella lingua italiana, quanto una specifico modo di relazionarsi all’altro, tra «un più forte, che si avvale della propria superiorità per danneggiare un soggetto più debole». In questa definizione sono presenti due dei principali criteri che la comunità scientifica è solita utilizzare per demarcare il fenomeno del bullismo da ciò che non lo è: l’esistenza di uno squilibrio nel rapporto di forza tra due o più persone; l’intenzione di arrecare un danno alla persona più debole. Una terza condizione, necessaria, per definire un fenomeno come bullismo concerne, infine, il perdurare nel tempo di un tale tipo di relazione squilibrata.

Dopo avere definito il bullismo, consideriamo ora la sua diffusione nelle scuole del nostro Paese. I dati più attendibili sono relativi a una ricerca condotta in varie regioni italiane, coordinata da Ada Fonzi dell’Università di Firenze, che ha coinvolto oltre 5.000 soggetti di scuola elementare e media.
L’indagine è stata effettuata somministrando ai ragazzi un questionario nel quale, dopo avere illustrato una definizione standard di prepotenza ed essersi accertati che i ragazzi la avessero compresa correttamente, è stato chiesto di indicare con che frequenza avessero subito o fatto prepotenze negli ultimi due mesi di scuola. I risultati sono stati senza alcun dubbio allarmanti. Alle scuole elementari, la percentuale di bambini che ha dichiarato d’avere subìto prepotenze da parte di propri compagni "alcune volte o più" negli ultimi due mesi di scuola è stata del 41,6%. Le percentuali di bambini che hanno dichiarato d’avere fatto prepotenze "alcune volte o più" negli ultimi mesi di scuola sono invece il 28%. I valori diventano più bassi, ma sempre preoccupanti, se utilizziamo un indice più severo, considerando come prepotenti o vittime solo quelli che dichiarano d’essere coinvolti nel problema con una frequenza almeno settimanale.

Le offese verbali sono riferite dal 51% dei bambini delle elementari e costituiscono di gran lunga il tipo di offesa più diffusa. Se, tuttavia, l’offesa verbale può essere considerata come un "costume" frequente nel contesto italiano, più difficile è sottovalutare il 42% di bambini che hanno riferito di aver subito prepotenze di tipo fisico. È importante rilevare come fra le possibili prepotenze vadano incluse non solo forme di aggressività diretta, ma anche quelle indirette, come l’essere esclusi da un gruppo di compagni o il far circolare delle storie sul conto di qualcuno.

Negli ultimi anni sono state realizzate numerose ricerche per comprendere le dinamiche psicologiche, individuali e di gruppo, alla base del manifestarsi del bullismo fra ragazzi. Il fenomeno è complesso e le cause che lo determinano sono molteplici. La personalità, i modelli familiari, gli stereotipi imposti dai massa media, un’istituzione scolastica spesso disattenta alle relazioni fra ragazzi, dinamiche di gruppo che trascendono il singolo individuo, sono tutti fattori concomitanti che, in maggiore o minore misura, contribuiscono al determinarsi del fenomeno.

Il bullismo è un fenomeno molto grave che presenta pesanti conseguenze psicologiche per i prepotenti.

Gli studi longitudinali, già messi in atto da Olweus e altri, rivelano che chi rimane a lungo nel ruolo di prepotente corre più rischi di altri di entrare in quella escalation di violenza che va da piccoli episodi di vandalismo, furti, piccola criminalità, fino a incorrere in problemi seri con la legge.
Questi ragazzi hanno quindi più probabilità da adulti di venire condannati per comportamenti antisociali.

Secondo Gallerano e Zipparri (2011), due esperti analisti italiani, il bullismo può essere letto come una ricerca di autonomia che passa attraverso la negazione dell’altro. Da questo punto di vista il bullismo diventa la caricatura di un di per se sano bisogno di autonomia. Caricatura che serve, come si scopre talvolta in psicoterapia, a celare le ferite e la sofferenza della propria storia personale. Ma si crede veramente, come vorrebbe lasciar intendere il bullo, che un adolescente non può aver fame di relazioni? La domanda è retorica, perché in effetti quanto avviene nel bullismo sembra decisamente contrario alla normale tendenza alla socialità insita nell’essere umano. Secondo Carl Gustav Jung il processo di individuazione, cioè quel progressivo divenire se stessi, non esclude gli altri, bensì li include. Scrive in “L’Io e l’Inconscio”: “L’individualismo è un mettere intenzionalmente in rilievo le proprie presunte caratteristiche in contrasto coi riguardi e gli obblighi collettivi. L’individuazione implica invece un migliore e più completo adempimento delle destinazioni collettive dell’uomo, poiché un’adeguata considerazione della singolarità dell’individuo favorisce una prestazione sociale migliore di quanto risulta se tale singolarità viene trascurata o repressa” (Jung, 1928, pag. 187). Il bullo, invece, pare costantemente impegnato ad innalzare se stesso umiliando l’altro. Da questa prospettiva possiamo dire che è come se, in un eventuale percorso psicologico, il bullo dovesse essere aiutato nell’andare oltre la maschera di distruttività che si è costruito, per riprendere un più genuino contatto con se stesso e l’altro.

Considerato però che questi ragazzi raramente arrivano in uno studio di psicologia-psicoterapia, come possono essere aiutati? La scuola può avere un ruolo centrale nel prevenire il fenomeno. Può facilitare i ragazzi nell’apprezzare le differenze individuale, può promuovere comportamenti di alleanza e solidarietà tra i compagni, ma soprattutto può sensibilizzare gli studenti sulla problematicità di tale comportamento.