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Il Gioco d' Azzardo

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Negli ultimi anni il gioco d’azzardo sembra aver assunto le dimensioni di una vera e propria epidemia.

Basti pensare che slot machine, gratta e vinci, poker on line, punti dove scommettere su ogni cosa, sono sbucati praticamente ovunque. Il gioco d’azzardo non è comunque una caratteristica esclusiva dell’uomo moderno, è sempre esistito. Cenni sul gioco d’azzardo li troviamo già nel Vecchio Testamento; nella mitologia egiziana laddove Mercurio giocando con la Luna le vince un po’ della sua luminosità; in un classico della cultura sanscrita, il Mahabharata, che narra di un re che perde regno, moglie, e se stesso a causa del vizio del gioco; in alcune insegne rinvenute dalla Antica Roma sulle quali si trova scritto “scommesse e cibo”; e presso il popolo germanico, dove era usuale giocarsi moglie, figli e la propria libertà. Tuttavia non nelle dimensioni che conosciamo oggi.

Il gioco patologico è divenuto così di massa che alcuni studiosi dell’argomento, quali Vincenzo Carretti e Daniele La Barbera, indagano questo fenomeno usando un approccio psicologico integrato con considerazioni di matrice sociologica. Secondo questi autori, molte persone si sentono disorientate in una società che ha aumentato notevolmente la libertà e le opportunità per il singolo individuo, e tale disorientamento tende spesso a trovare risposta in una qualche forma di dipendenza. Molte volte in una dipendenza da gioco. Da questa prospettiva, “il desiderio di ricchezza, il tentare la fortuna, il rischiare per vincere svelano elementi di crisi strutturali, non solo economici, ma anche valoriali e relativi al sentimento di sicurezza e stabilità individuale e collettiva” (2011, pag.10).

Riducendo il discorso agli aspetti psichici del singolo individuo, possiamo dire che la letteratura psicologica ha riscontrato due tratti comuni nei vari giocatori d’azzardo: il piacere per il rischio, ed una sorta di pensiero magico. Il piacere per il rischio è una forma di eccitante adrenalina a cui la persona con dipendenza da gioco difficilmente riesce a rinunciare. Più che fornirne una definizione tecnica, preferiamo lasciar parlare un celebre giocatore, Dostoevskij, che nel suo omonimo romanzo così parla dell’ebrezza legata al rischio: “Fui assalito da un desiderio spasmodico di rischiare. Forse dopo aver provato così tante sensazioni, l’animo non si sente sazio, ma eccitato da esse, ne chiede sempre altre, sempre più intense, fino alla totale estenuazione.” Il pensiero magico è una forma di pensiero che mette in relazione elementi che tra essi non hanno una relazione causale, per esempio il credere che un certo gesto possa propiziare l’uscita di un certo numero. Questo porre in relazione gesti, azioni, fatti, in realtà tra di essi distanti fornisce la rassicurante, e per certi versi onnipotente, illusione di poter controllare la realtà e di conseguenza i rischi che si intraprendono nel gioco. Ma la relazione tra questi due tratti psichici, il pensiero magico e il piacere per il rischio, è meno lineare di quanto possa apparire a prima vista. Infatti, se è vero che il pensiero magico facilita nel correre rischi con piacere, dando appunto l’idea che la realtà sia manipolabile, è anche vero che il pensiero magico è via via più presente in coloro che adorano il rischio. Sostanzialmente sono due elementi del temperamento che si rafforzano vicendevolmente, essendo tra di essi implicati in una relazione circolare.

Gli studi psicologici sui giocatori d’azzardo hanno anche evidenziato “due classi” di giocatori: coloro che giocano per coprire un malessere, come ansia e/o depressione; e giocatori d’azzardo “puri”, che vengono letteralmente rapiti dal gioco.

Ma come può l’atto del giocare, un qualcosa che di per se dovrebbe essere ludico/creativo, divenire patologico? Come può un gioco trasformarsi in un disturbo? In effetti in tale questione si annida lo sconcerto che suscita la dipendenza da gioco in osservatori non addetti ai lavori. Ma non è il gioco in sé ad essere patologico, bensì l’uso che se ne fa. Il gioco è uno degli istinti umani basilari. Chiunque osservi un bambino in età pre-scolare giocare, potrà facilmente rendersi conto di come il gioco sia per egli/ella un’esperienza ricca di significato. E’ insito nel gioco un apprendimento cognitivo, la possibilità di manifestare emozioni e vissuti, costituisce un’esperienza simbolica, è un’occasione di socializzazione. Anche nei giochi degli adulti, sia pur in maniera meno evidente, il giocare conserva questa ampiezza di significati. Nei giocatori d’azzardo, invece, il gioco assume una valenza diversa rispetto al modo in cui generalmente viene vissuto: perde le sue usuali funzioni e diventa il terreno su cui dimostrare il proprio valore e le proprie capacità. Un giocatore di poker, uno scommettitore di cavalli, un sistemista nel totocalcio, generalmente ritiene che le sue personali abilità abbiano un peso molto maggiore degli elementi fortuiti presenti in questi giochi, perciò tende a trasformare il gioco in una sfida personale in cui ad essere in palio non è più la posta del gioco specifico, bensì il proprio senso di adeguatezza personale.

Considerato quanto affermato sino adesso, possiamo concludere dicendo che un buon intervento terapeutico con la persona che soffre di dipendenza da gioco dovrebbe, paradossalmente, aiutare l’individuo a ritrovare una vera capacità di giocare. Come? Attraverso il facilitare la persona nel riuscire ad esprimere il proprio valore e il proprio talento, a se e agli altri, non per mezzo di un gioco tramutatosi in una guerra personale, bensì in altri ambiti, quali la famiglia, gli affetti, il lavoro, i propri progetti, probabilmente trascurati proprio a causa della dipendenza da gioco.